Dalla serie "Ognuno ha le sue croci."
Io ora vado a sgozzare la vicina di sotto che ha la passione per la musica classica e sta gorgheggiando con tre dico TRE sue amiche da un’ora e mezza. LO STESSO CAVOLO DI PEZZO. Non canzone, ma strofa. Hanno un’ocarina o simile per darsi il famoso "LA" e riprovano la strofa in modi sottilmente diversi.
Risultato?
Durante i precedenti 90 minuti non sono riuscite ad inanellare la strofa successiva con questa. Nel frattempo (non so il perchè) sono passate ad altre strofe, al finale, altre strofe e poi al discorso di presentazione del quartetto. Con applauso, ovviamente.
Questo è solo un assaggio perchè la #òò@§ù§ strofa si ripete come su un vecchio vinile rigato + un breve commento, poi da capo. Una voce, due voci, coro.
Indosso la maschera da hokey e vado a comprare la motosega.
Ovvio che il vicinato è gestibile meglio dei chi si occupa della prole mentri i genitori lavorano. Ma anche io ho il mio soffrire.
Ciao.
]]>Baci baci, Silvia
]]>"ma vat a fat dé in te cul" cioè "ma fatti a farti dare nel culo" —-> in cui le due ‘t’ in ‘vat’ e ‘fat’ esprimono una ripetizione che non è errore ma rafforzativo del ‘dé’ e soprattutto non vogliono lasciare dubbi sul soggetto che deve compiere/subire l’azione
oppure, citando un eroico Peppone, moribondo in terra straniera, semi-svenuto sul letto, ubriaco perso dopo una epica e infinita gara con il sindaco della città russa con cui si è gemellata Brescello, pieno di vodka fino alle orecchie, riconoscendo Don Camillo, alza un sopracciglio e lo accoglie con un bel:
"c’at vegna un chéncar" cioè "che ti venga un cancro"
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